Editoriale 1
La settimana sui media
14 - 20 settembre
22 settembre 2020
Sembra che sia in corso una guerra combattuta sulla Rete, una guerra simbolica e cognitiva ma terribilmente efficace, attivata da insospettabili sostenitori di Trump, dalle major dei social media e che ha visto in Cambridge Analytica il precursore delle infowar.
Il discorso di Ursula Von Der Leyen sullo Stato dell’Unione, la narrativa sul debito pubblico e come hanno raccontato il Covid in Svezia: la retorica efficace della comunicazione politica e scientifica. E infine il ruolo degli spin doctor nelle elezioni regionali italiane e nell’Inghilterra post – Brexit.
La Redazione
· Donald Trump o la crociata dei bambini: parafrasando Kurt Vonnegut, la mobilitazione di una rete di adolescenti come supporter del presidente Usa è l’ultima tappa delle infowar contemporanee. Il Washington Post ha scoperto che migliaia di messaggi riportanti fake news di varia natura (i dati di contagio del Covid, i legami di Biden con la sinistra estrema, eccetera) hanno inondato i social media attraverso account intestati a ragazzini pagati per diffonderli. Non troll quindi, ma giovani operatori in carne ed ossa orchestrati da Turning Point Usa, un’associazione di attivisti vicina a Trump. Un’idea degna di Sherlock Holmes, che sguinzagliava per Londra giovanissimi teppisti per ricavare informazioni utili alle indagini. Quello della propaganda elettorale digitale sta diventando un problema serio per la democrazia statunitense, dopo il caso della campagna di disinformazione contro Hillary Clinton a opera di un’agenzia di San Pietroburgo quattro anni fa.
· The Social Dilemma è un documentario di Netflix dedicato ai social network e alla loro capacità di modificare cognitivamente il comportamento degli utenti. È, di fatto, un impressionante atto di accusa nei confronti delle major del settore, che decodifica i processi di persuasione, di plagio e di creazione di dipendenza, con effetti drammatici sui comportamenti individuali e, conseguentemente, sulla tenuta sociale delle democrazie. Dopo gli entusiasmi per i tweet della Primavera araba, il documentario ci racconta che i social media sono un fenomeno più dirompente di quanto, e di come, immaginiamo.
· Chistopher Wylie, la gola profonda di Cambridge Analytica, ha pubblicato Il mercato del consenso, sulla sua esperienza presso la famigerata azienda tecnologica inglese nei cui corridoi ha visto “passare di tutto: da Steve Bannon fino a oligarchi russi e consiglieri politici italiani”. Nell’intervista aRepubblica, anche per Wylie la democrazia è minacciata dai social media, in particolare da Facebook, che secondo lui ha favorito il genocidio dei musulmani a Mayanmar, veicolando messaggi razzisti. La visione di Wylie è quella di un insider indignato e rassegnato, che lascia poco spazio all’ottimismo. E – in cauda venenum - è interessante per i lettori e gli elettori italiani sapere che i Cinquestelle avevano avuto contatto con Cambridge Analytica tramite Steve Bannon.
· C’è una Paese, la Svezia, nel quale un singolo epidemiologo ha convinto l’intera nazione (e non solo) che il “liberi tutti” fosse la giusta strategia da seguire per fronteggiare il Covid 19. Va ricordato che la fiducia è da sempre l’ingrediente non segreto del rapporto tra governo e cittadini svedesi. Il governo confida nei propri cittadini, che seguono le raccomandazioni, evitando comportamenti rischiosi. Questo ha sicuramente giocato a favore della strategia comunicativa del governo e del suo esperto Andres Tegnell, nominato in seguito al Covid 19 epidemiologo di Stato. Tegnell, ormai una celebrità in patria, sembra aver studiato dai migliori manuali di comunicazione di crisi: centralizzazione del messaggio, immediatezza, empatia, trasparenza. Con un tono di voce rassicurante, si basa sui fatti facendo riferimento a dati scientificamente provati e risponde ai giornalisti in modo autorevole (un buon esempio è l’intervista su FRANCE 24). Infine, cosa non da poco, ha sempre mantenuto la veste di esperto, mai quella di politico.
· È durato un’ora e 19 minuti il discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula Von Der Leyen. Ma cosa ha detto e come lo ha detto? Politicoha analizzato il testo e lo ha comparato a quello di insediamento della stessa Von Der Leyen nel 2019 e a quelli dei suoi predecessori, individuando linee di continuità e varianze. Più che l’inevitabile cambio di priorità rispetto al 2019, è interessante il flusso di temi relativo agli speech che partono dal 2010, che segnalano l’andamento dei key topics in agenda. L’analisi non ci dice in realtà se lo speech di Von Der Leyen sia stato efficace ma ci fornisce un dato sulla sua capacità retorica: nel 2019 è stata quella che ha variato maggiormente parole e temi, rivelandosi una presidente più “generalista” (e quindi inclusiva?) dei predecessori.
· Il debito pubblico è buono o cattivo? Forse è troppo banale dire che è buono quando è sostenibile ed è cattivo quando non lo è, ma è una via d’uscita che semplifica la vita e il dibattito. In realtà, come spiega Formiche, gli effetti del debito pubblico dipendono in larga parte dalla sua narrazione, un risultato consolidato in alcuni studi di premi Nobel (Formiche cita giustamente Robert Shiller ma già William Nordhaus aveva dato un contributo fondamentale sull’importanza delle credenze in economia). Ma verrebbe da dire che, per quanto comunicazione e retorica siano strumenti potenti, i fondamentali economici contano: è più facile diventare keynesiani quando si deve fronteggiare una pandemia devastante, così come dimostrano i due ex falchi tedeschi Wolfgang Schäuble e Jens Weidmann.
· Esiste un potere burocratico che pesa enormemente sulla vita politica di un Paese. Non sono i rappresentanti eletti, i membri del Governo, i parlamentari, i governatori delle regioni. Sono i titolari di posizioni sconosciute ai più: i capi di gabinetto, i presidenti della autority, i capi dei servizi segreti, i segretari generali. Sono posizioni che spesso non risentono del ciclo politico, e che in ogni caso è difficile cambiare. Ma quando cambiano gli effetti sono rilevanti e di lungo periodo. L’Espresso dedica un lungo articolo al “Partito grigio”, ovviamente con un occhio molto critico. I media cercano periodicamente di fare luce su questa area oscura, ma non è facile: nel libro Io sono il potere l’autore, un anonimo capo di gabinetto, all’inizio dichiara: “Frequento la penombra, non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco sui giornali. Non mi conosce nessuno, a parte chi mi riconosce.”
· Con le elezioni regionali italiane è tornato in auge la figura dello spin doctor. Oltre ai soliti, pochi noti, la stampa cerca di scoprire nuove figure. Tra questi Daniel Fishman, titolare dell’agenzia Consenso e consulente di Stefano Bonacini, Raffaele Fitto e Maurizio Mangialardi. Indipendentemente dal risultato (una vittoria e due sconfitte), Fishman incarna alla perfezione la professionalizzazione del ruolo: non è rilevante l’area di appartenenza politica, ma solo il tipo di sfida. Non per tutti è così. Sul sito di Social Changes, l’agenzia che ha appoggiato Eugenio Giani in Toscana, si legge “Lavoriamo per progressisti senza paura e campagne audaci”.
Dominic Cummings è invece molto di più di uno spin doctor. L’ombra di Boris Johnson è stato il diabolico artefice della Brexit, e ha orchestrato nel 2019 la sospensione del Parlamento inglese scontrandosi con la Corte Suprema. Il punto critico ha a che fare con la democrazia: Cummings non è eletto, di fatto non è neanche un politico, come può avere tanto potere?