Editoriale 10
La settimana sui media
16 - 22 novembre
24 novembre 2020
Macron va alla guerra, e non c’entra solo il fondamentalismo. La propaganda del terrore e come fermarla. Lo strano accordo tra Bannon e la Cina. Tecnica e pratica delle fake news. Il linguaggio inclusivo di Joe Biden. Quando la sinistra non vede bene. Bye Bye Cummings. Quanto vale un influencer.
La Redazione
· È battaglia tra Macron e i media anglosassoni. A scatenare l’ira dell’Eliseo - e di Le Figaro - sarebbero stati due editoriali: da un lato Ben Smith del New York Times ha raccontato di aver ricevuto – incredulo – una telefonata dal centralino dell’Eliseo che gli ha poi passato Macron (che non ha mai concesso un’intervista al giornale newyorkese dal suo insediamento); dall’altro, l’FT la settimana scorsa ha scritto, ritirando poi l’articolo, “La guerra di Macron contro il separatismo islamico non fa che accrescere le divisioni in Francia”. Il presidente francese si sarebbe lamentato di come i media anglosassoni hanno coperto gli attentati islamisti in Francia e coprono la linea presa dal governo francese. La posizione dell’Eliseo non è isolata, ma condivisa da gran parte della stampa transalpina. Quando Macron fu eletto, una delle accuse che gli fu rivolta era quella di essere un politico senza appartenenza ideologica, un prodotto delle elités finanziarie che basano la loro forza di propaganda proprio su testate come il Financial Times. La dura polemica di questi giorni è un interessante contrappasso per entrambi i contendenti.
· La Polizia di Vienna, la sera dell’attentato del 2 novembre, ha immediatamente sollecitato la popolazione sui social a non postare video o foto dell’attentato. Il motivo è spiegato bene dal ricercatore sul terrorismo Jannis Jost, il quale sostiene che l’ISIS punta molto a sfruttare la fame di immagini e di cronaca minuto per minuto tipica dei media occidentali, inducendo l’autoriproduzione di immagini destabilizzanti. Sotto questo aspetto, il terrorismo islamico ha dimostrato un grado di sofisticazione pari alla sua ferocia. Quando, nel 2016, gli americani uccisero in rapida sequenza Abu Mohammad al-Adnani e Wail Adil Hasan Salman al-Fayad, i diretti responsabili della propaganda dell’Isis, molti osservatori ritennero che da quel momento sarebbe iniziata la disarticolazione del Califfato, come effettivamente avvenne. Nelle guerre la propaganda è importante ma nelle guerre fondate sul terrore lo è di più. Per l’Isis è stato più facile sostituire un responsabile delle operazioni militari che una stratega delle comunicazioni, in grado di alimentare la guerra simbolica contro i crociati incoraggiando i propri soldati e terrorizzando i nemici.
· Estrema destra americana e membri della “Chinese diaspora” sempre più alleati? Sembra che Steve Bannon e il miliardario Guo Wengui abbiano garantito alla Dottoressa Li-Meng Yan (promotrice della teoria secondo la quale il coronavirus è stato deliberatamente “rilasciato” dal Partito comunista cinese) un vasto pubblico per diffondere fake news circa la pandemia. Secondo il New York Times, ognuno di loro ha visto un'opportunità nella pandemia, uniti dal sentimento anti-cinese fondamentale per distrarre gli americani dalla gestione dell'epidemia da parte dell'amministrazione Trump. La strategia è quella di puntare sulla scarsità di informazioni provenienti dalla Cina, dove il governo ha resistito a un'indagine trasparente e indipendente da parte dell’OMS, mettere quanto più in risalto possibile la Dottoressa sui media conservatori americani e creare, con il supporto dei social media, una echo chamber attorno all’elettorato americano. Per quanto ben studiata, la strategia non è andata in porto e oggi gli Usa hanno un nuovo presidente. Un segno, forse, di una maggiore consapevolezza dell’elettorato americano.
· Le fake news, in un panorama mediatico sempre più saturo e confusionario, possono rappresentare vere informazioni degne di attenzione. Ma come si costruiscono delle notizie false tanto realistiche da ottenere credibilità? Lo ha spiegato Nikki Usher, professoressa associata all’università dell’Illinois che si occupa di media, politica e tecnologia, analizzando soprattutto il modo di operare dei media americani di destra. Questi hanno trovato infatti il modo di rendere la disinformazione e le teorie del complotto “ragionevoli”, usando argomentazioni convincenti soprattutto per quella parte degli elettori repubblicani che si affida solo a ristrette e schierate fonti d’informazione (vedi Editoriale 9). Questa dinamica, ampiamente utilizzata da Trump (vedi Editoriale 8) e ormai fortemente radicata nella propaganda repubblicana, potrebbe rappresentare però il vero ostacolo in più per la democrazia americana e per Biden, che dovrà fronteggiare una forte divisione non solo all’interno della società ma anche nel giornalismo.
· Il modo in cui comunichiamo dice molto di noi e se si parla del neo presidente eletto degli Stati Uniti questo rappresenta senza dubbio un importante biglietto da visita. Il linguaggio usato dai capi politici, infatti, condiziona inevitabilmente i comportamenti e l’umore della società. Un esempio evidente è fornito dalla propaganda utilizzata da Trump, solito usare un linguaggio forte, improntato sulla contrapposizione, la diffidenza e l’egocentrismo, responsabile di grandi divisioni all’interno della società. Per realizzare il cambiamento desiderato, Joe Biden ha pienamente compreso che il primo reale intervento deve essere dedicato alle modalità comunicative, proponendo un linguaggio alternativo, pacato e inclusivo nel quale il “noi” possa diventare la base da cui far partire la ricostruzione (vedi Editoriale 8), così come intuito da Obama con l’iconico “Yes WE can”. Ma sarà solo il suo cambio di registro a garantirgli fiducia e successo nell’opinione pubblica oppure, essendo spesso additato come poco carismatico, l’asso nella manica sarà rappresentato dalla talentuosa e tenace Kamala Harris?
· Che cos'è oggi la sinistra americana? Una fabbrica di certezze secondo Bret Stephens, editorialista del New York Times. Prevalentemente progressista, lontana dai liberali centristi e convinta che la verità possa essere stabilita senza coinvolgere punti di vista opposti. La nuova sinistra americana è dunque cieca, ossessionata dai risultati, lontana dalla realtà. Un esempio? I media di sinistra hanno dipinto Trump come il presidente più anti-nero, anti-ispanico e anti-donna nella memoria moderna. Tuttavia, l’ormai ex presidente americano ha ottenuto la maggioranza dei voti delle donne bianche sia contro Hillary Clinton che Joe Biden e aumentato la sua quota di voti presi nel 2016 tra gli elettori sia latini che neri (vedi Editoriale 8). I media di sinistra farebbero bene a non confondere le convinzioni con la realtà, specialmente se ciò che scrivono ha un impatto determinante sull’orientamento politico delle persone.
· Prima Lee Cain, il capo delle comunicazioni, poi Dominc Cummings: l’ultimo blitz di Boris Johnson decapita i due nomi più in vista della lobby dei Brexiteers. Il premier britannico licenzia dunque il suo stratega (vedi Editoriale 1), il cui capolavoro resterà la campagna per il Leave, basata sui dati, profilazione di massa e campagna social spregiudicata su Facebook. Sembra che il colpo di grazia lo abbia dato la vittoria di Joe Biden, anche se gli analisti britannici attribuiscono la regia a Carrie Symonds, la fidanzata del primo ministro. Cummings rappresenta quindi la prima vera prova dell’effetto Biden sui populismi? E ancora, come cambierà, se cambierà, la comunicazione di BoJo?
· I soldi non fanno la felicità ma spesso nei modelli sociali condivisi oggi le due cose tendono a sostituirsi e confondersi. In questo momento storico in cui i social “la fanno da padroni”, la figura degli influencer continua ad ottenere grande popolarità (vedi Editoriale 9) e in particolare quella degli influencer virtuali che, non essendo condizionati dalle limitazioni della pandemia, porteranno le aziende ad investirvi entro il 2022 fino a 15 miliardi di dollari, il doppio rispetto il 2019. Dal punto di vista del fatturato questo rappresenta un potenziale enorme e il loro essere irreali non rende meno credibile la loro capacità di orientare e influenzare preferenze e acquisti dei fruitori. Il modo in cui si investe il proprio denaro e il proprio tempo per essere più felici rimane una delle maggiori sfide quotidiane e la generazione z e i millenials, target di riferimento per il mondo degli influencer virtuali poiché costituiranno le basi sociali ed etiche della civiltà futura, sono chiamati proprio oggi a fronteggiare questa sfida.