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Editoriale 76

La comunicazione sui media
21 - 27 marzo

29 marzo 2022

L’ideologia anti-occidentale. L’imbarazzo della destra. Le armi più potenti. La guerra secondo i talk show italiani. BuzzFeed in crisi. La ricetta della viralità.

La Redazione


L’ideologia anti-occidentale


All’inizio della sua presidenza negli anni 2000, Putin aveva il mandato di stabilizzare un'economia ancora in difficoltà dopo la crisi del debito del 1998, ma a distanza di più di 20 anni la situazione è cambiata e il governo del leader russo non è più basato sul miglioramento dei redditi, bensì sulla religione e l’ideologia anti-occidentale. Come riporta The Economist, in un discorso a Monaco nel 2007 Putin ha formalmente rifiutato l'idea dell'integrazione della Russia nell'Occidente. Nello stesso anno ha detto durante conferenza stampa a Mosca che le armi nucleari e il cristianesimo ortodosso sono i due pilastri della società russa, l'uno garantisce la sicurezza esterna del paese, l'altro la sua salute morale. L'inizio della pandemia da Covid-19 due anni fa ha portato un innalzamento della posta ideologica. L'aspetto più discusso dei cambiamenti costituzionali che Putin ha ottenuto nel luglio 2020 è che hanno effettivamente rimosso tutti i limiti del suo mandato, ma hanno anche dato vita a nuove norme ideologiche: il matrimonio gay è stato vietato e il russo è stato sancito come “lingua del popolo che forma lo stato”. I lunghi periodi di isolamento di Putin sembrano aver consolidato la trasformazione e si dice che abbia perso molto del suo interesse per l'attualità preoccupandosi invece della storia. Da qui una guerra contro l'Ucraina che è anche una guerra contro il futuro della Russia - o almeno il futuro come è stato concepito dalla fazione occidentalizzante della Russia. La guerra è intesa a cancellare la possibilità di qualsiasi futuro che guardi verso l'Europa e una qualche forma di modernità liberatrice. Oltre che con le armi Putin combatte l’occidente con la propaganda, accusandolo di aver attivato un processo di “cancellazione” nei confronti della Russia, in termini di sanzioni, prese di distanza, boicottaggi e altre iniziative per isolare il paese in vari ambiti, dalla cultura alla scienza. Putin ha paragonato questa tendenza all’ operazione per bruciare i libri condotta dai nazisti 90 anni fa, nonostante la censura sia però elemento caratterizzante proprio del governo russo (vedi Editoriale 73).



L’imbarazzo della destra


In un approfondimento del The Economist viene messa in evidenza la difficile posizione degli schieramenti politici di destra e ultra destra nel mondo che, da sempre e fino a poco tempo fa, sostenevano ed esaltavano Putin come grande leader a cui legarsi. In tutto il mondo infatti, diversi esponenti di destra si sono mossi in questi anni mostrando grande sostegno verso Putin e le sue “battaglie” facendo della propaganda nazionalista e conservatrice un cavallo di battaglia, cosa che ha permesso alla Russia di intromettersi e influenzare alcuni eventi ed equilibri internazionali (vedi Editoriale 8 e 64) e ai conservatori occidentali di ricevere supporto  dal Cremlino. La guerra però ha inevitabilmente portato con sé stravolgimenti non solo per l’Ucraina ma anche per alcuni equilibri geopolitici tra quegli schieramenti politicamente vicini alla Russia. Non pochi leader di destra in queste ultime settimane sono stati messi infatti alla berlina per il loro precedente supporto al leader Russo (ad esempio Salvini e Marine Le Pen) ma, attraverso una strategica propaganda e comunicazione che cerca le colpe e gli errori dell’Occidente piuttosto che condannare la guerra, hanno sempre cercato di distrarre l’attenzione verso altre tematiche volendo approfittare della memoria corta di alcuni sostenitori per poter mantenere il loro potere senza negare storiche (ed evidenti) convinzioni o battaglie. L’informazione nella quale siamo costantemente immersi ci aiuta a conoscere tutto quello che accade nel mondo ma le notizie sono talmente tante (e spesso plasmate e confuse) che a volte la memoria e la coerenza diventano le prime “vittime”.



Le armi più potenti


Gli ucraini stanno utilizzando i social media anche per stimolare la resistenza e combattere la disinformazione. A riportarlo è The New York Times, che sottolinea come i diversi messaggi diffusi tramite le piattaforme di virtuale aggregazione siano potenti munizioni atti a combattere la disinformazione. I social media, difatti, da luogo in cui i cittadini si organizzavano sono prima diventati un terreno per reclutare combattenti, quindi un posto dove cercare di far arrivare informazioni più veritiere possibili. E le immagini, in questo senso, hanno svolto un ruolo da protagonista. Lo sa Anastasiya Magerramova, addetto stampa dell'ospedale pediatrico Okhmatdyt a Kiev, che ha deciso di prestare i fianchi ai soldati in strada mostrando la devastazione della sua terra, quindi lottando per la verità. “Stiamo vivendo la guerra in modo molto viscerale attraverso i feed dei social media”, ha affermato Emerson Brooking, senior fellow dell'Atlantic Council, un think tank di affari internazionali con sede a Washington. “La trasformazione dell'Ucraina in una nazione in guerra è semplicemente cruda. E quindi ha particolarmente risuonato con il pubblico occidentale”.



La guerra secondo i talk show italiani


I talk show non possono fare informazione perché il loro scopo è quello di intrattenere. Come riportato da Linkiesta, i dibattiti in televisione sulla invasione russa confermano come questi siano costruiti per esaltare il gusto della contrapposizione e non per aiutare il pubblico a comprendere. Chi segue la TV generalista è continuamente sottoposto alle opinioni sulla geopolitica espresse da filosofi, sociologi, fisici ed altri esperti. Ed è lì che si manifesta il fenomeno, ben spiegato da Nathalie Tocci sulla Stampa, secondo cui “il paradosso è quando nel nome della libertà di opinione, e quindi della democrazia, si dà spazio alla opinione slegata dalla competenza, aprendo – consciamente o inconsciamente – alla disinformazione e alla propaganda. E infliggendo un colpo letale alla democrazia stessa”. È un copione scritto al mero scopo di intrattenere il pubblico, esattamente come il wrestling non ha lo l’obiettivo di decretare il più forte, ma solo quello di dare spettacolo. Insieme alla volontà di spettacolarizzare il racconto, nei talk show nostrani si è sviluppata la tendenza a pensare che il presidente ucraino sia un ostacolo alla pace. Come riportato dal Foglio, non è vero che se Zelensky lasciasse oggi il suo incarico gli ucraini smetterebbero di combattere. Anzi, è esattamente il contrario: la guerra continuerebbe anche senza Zelensky, perché guida la resistenza all’invasione in nome del mandato popolare ricevuto. Il popolo ucraino difficilmente dimenticherebbe ciò che sta accadendo, non si è assolutamente ammorbidito. A marzo il Foglioha intervistato persone comuni che nella capitale Kyiv promettevano di combattere casa per casa contro gli invasori, ispirati dal forte sentimento popolare di reazione condiviso da milioni di ucraini. E se questo sentimento è così forte non è colpa – o merito – di Zelensky, ma di Putin, che ha compattato gli avversari con la farsa dell’“operazione speciale di denazificazione”.



BuzzFeed in crisi


Mark Schoofs, caporedattore di BuzzFeed News, ha annunciato al suo staff che lui e altri due redattori, Tom Namako, vicedirettore capo, e Ariel Kaminer, caporedattore dell'unità investigativa, stavano lasciando l'azienda e che la sezione notizie del sito sarebbe stata ridimensionata. Un annuncio che, come riportano Il Post e il Columbia Journalism Review, ha suscitato parecchie perplessità circa gli ultimi investimenti di BuzzFeed e la sua decisione di essere quotato in Borsa. Il noto sito giornalistico americano è nato nel 2006 e, attraverso la condivisione di articoli e di contenuti virali, ha costituito per molto tempo una nuova forma di informazione, che ha consentito anche di sostenere la sezione News dedicata a inchieste più approfondite. Nel 2021 la redazione ha vinto il premio Pulitzer per il lavoro giornalistico sui campi di detenzione degli uiguri (una minoranza etnica cinese) nella regione dello Xinjiang. Nonostante questi successi, BuzzFeed ha registrato risultati negativi negli ultimi anni, a causa sia del declino di Facebook (piattaforma sulla quale il sito ha investito molto per rilanciare i propri contenuti), sia dell’entrata in Borsa, manovra che ha posto la testata in una situazione scomoda dovendo affrontare numerose pressioni da parte degli azionisti. Nel 2019, BuzzFeed ha licenziato più di 200 giornalisti, editori e altri membri dello staff, inclusi interi team e gran parte dei suoi uffici internazionali nel Regno Unito e in Australia. L'anno scorso, nel tentativo di ripristinare la sostenibilità del progetto iniziale, l'azienda ha licenziato 70 dipendenti. La sezione News del sito sembra aver generato una perdita di circa 10 milioni di dollari nell’ultimo anno e, se venisse chiusa del tutto, il profitto dell'azienda potrebbe aumentare fino al 30%. È una posizione scomoda quella dell’amministratore delegato, Jonah Peretti, che per il momento non ha rilasciato dichiarazioni in merito. Attraverso i nuovi tagli e le buonuscite, l’obiettivo della società sarebbe quello di tornare a puntare esclusivamente sulla sezione di contenuti virali e di tagliare definitivamente inchieste più lunghe. Si rende necessaria una nuova forma editoriale più sostenibile.



La ricetta della viralità


Che cosa rende virale un articolo di giornale? Se lo chiede il New York Times in un articolo che riflette sulla fortuna mediatica di un pezzo di Amanda Hess, dedicato al profilo della cantante Sinead O'Connor, risalente a maggio 2021. Quali le ragioni che portano a un picco nel traffico tramite condivisioni e interazioni su social media, ricerche sul Web e click nell’homepage del sito? Il dottore e professore Jonah Berger ha analizzato oltre 7.000 articoli del Times alla ricerca dei motivi di questo fenomeno. Innanzitutto, prodotti editoriali capaci di suscitare stupore, rabbia, sorpresa e ansia si rivelano come i più promettenti nel divenire virali, meno invece quelli connotati da tristezza o contentezza. La condivisione è poi una “valuta sociale”: ce ne avvaliamo nella misura in cui riescono a comunicare, in modo diretto o indiretto, qualcosa di noi stessi al nostro pubblico; ogni volta che condividiamo qualcosa in rete, si attivano infatti nel nostro cervello le aree che rispondono alle ricompense. I ricercatori sono quindi riusciti, monitorando l’encefalo di 80 persone durante la lettura di titoli di giornale, a prevedere quali di questi sarebbero stati ricondivisi sui social al fine di rafforzare i propri legami sociali. Non solo: i partecipanti all’esperimento che per indole personale erano più abituati alla lettura quotidiana di articoli si sono rivelati meno capaci di individuare quali contenuti avrebbero acquisitomaggiore viralità.

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