top of page

Editoriale 85

La comunicazione sui media
23 - 29 maggio

31 maggio 2022

Deja-vu di una strage. L’impero della menzogna. La Cina come Dr. Jekyll e Mr. Hyde. La storia della punizione divina. La complicità dei media e la presunzione di innocenza. Dietrofront su USA Today. Fermi tutti, parla Pichai.

La Redazione


Deja-vu di una strage


A distanza di una settimana dalla strage del supermercato di Buffalo (vedi Editoriale 84), si è verificata una sparatoria nella scuola elementare di Uvalde e la narrazione giornalistica del massacro è rimasta la stessa. Come riporta il Washington Post, la copertura mediatica sembra un “grottesco deja-vu: gli allarmi iniziali della polizia, la brulicante scena del crimine, gli spari dal vivo dall'elicottero, le tragedie familiari e, inevitabilmente, un altro giro di dibattiti inconcludenti sul controllo delle armi e sulla salute mentale.” Le sparatorie di massa sono diventate fatti di routine per i giornalisti americani, tanto che la maggior parte di loro segue schemi preimpostati. Rachel Martin, co-conduttrice del podcast “Morning Edition” di NPR, ha affermato che le linee editoriali dopo stragi di questo tipo presentano un ordine del giorno fin troppo familiare: “Abbiamo sentito le famiglie delle vittime? Cosa dice il responsabile della pubblica sicurezza in merito al sospetto tiratore? Cosa ne pensate di un membro del clero locale che può parlare di come la comunità si sta unendo? Chi copre la veglia a lume di candela?” Così come sono ormai note le dichiarazioni di personalità politiche dopo le sparatorie: se sono contrari al controllo delle armi, parlano di malattia mentale, della tragedia della situazione, delle caratteristiche individuali del tiratore e della necessità di “scuole più sicure”; se, invece, si tratta di politici favorevoli al controllo delle armi da fuoco, chiedono la regolamentazione di determinati tipi di armi e particolari tipi di munizioni. Il paradosso della situazione è che, pur essendosi già verificate stragi di questo tipo (Columbine, Sandy Hook, Marjory Stoneman Douglas e da poco Robb Elementary), tuttavia, le testate e i discorsi delle autorità pubbliche fanno sempre riferimento a “tragedie imprevedibili” che non possono essere evitate, eliminando immediatamente ogni desiderio di cambiamento e alimentando un senso di rassegnazione. La narrazione giornalistica influisce così anche sulla percezione del pubblico, ormai sfortunatamente assuefatto a questo tipo di notizie.



L’impero della menzogna


Vladimir Putin ha un nome per l'Occidente, lo chiama “l'impero della menzogna”. Come osserva il commentatore politico Ivan Krastev: “L'ipocrisia dell'Occidente è diventata un'ossessione per lui”. Ma, come sostiene il Financial Times, ipocrisia e bugia non sono proprio la stessa cosa. La distinzione può sembrare semantica, persino frivola, ma è importante. Il governo russo è specializzato in vere menzogne, insistendo in vari modi sul fatto che non ha invaso l'Ucraina, non ha avvelenato il leader dell'opposizione Alexei Navalny, non ha nulla a che fare con l'abbattimento del volo MH17 e il suo esercito non ha commesso crimini di guerra. Gli Stati Uniti e i loro alleati, al contrario, sono specializzati nell'ipocrisia. Il vizio caratteristico dell'Occidente è proclamare un ideale o una politica e poi applicarla in modo incoerente. Spesso i paesi occidentali si proclamano difensori dei diritti umani, ma agiscono facendo il contrario. L'Occidente è un “impero dell'ipocrisia”, è la Russia il vero “impero della menzogna”. E quando si tratta di una prova di forza tra i sistemi, l'ipocrisia funziona meglio delle vere menzogne. In un impero dell'ipocrisia, il dibattito aperto e la critica sono ancora possibili. Si commettono errori e si commettono crimini. Ma questi crimini possono essere segnalati, sia da indagini ufficiali che da una stampa libera. Il pericolo di basare una politica sulla menzogna invece è stato ampiamente dimostrato in Ucraina. Fino all'ultimo momento, il Cremlino ha negato che fosse pianificata un'invasione. Apparentemente anche alti funzionari russi hanno appreso la verità solo poche ore prima che i carri armati iniziassero a marciare. Anche adesso, una guerra su vasta scala deve essere definita “operazione militare speciale”. A quale prezzo Putin e la Russia pagheranno le loro menzogne?



La Cina come Dr. Jekyll e Mr. Hyde


Uno dei pericoli del totalitarismo è proprio la sua capacità di indottrinare il popolo perché pensi come un sol uomo”. Scriveva così nel 2005 l’oggi editorialista del Corriere della Sera da New York Federico Rampini nel suo saggio Il secolo cinese: storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo. Una considerazione che mai come in questi tempi risulta attuale se si fa riferimento alla figura del leader cinese Xi Jinping che al prossimo 20° Congresso dovrebbe essere consacrato per altri cinque anni come capo del Partito Comunista. Un’ascesa inarrestabile nel segno della censura e del controllo, donando un volto nuovo al Partito e affermandosi come figura capace di donare alla Cina una visione moderna e all’avanguardia (vedi Editoriale 56). Come riporta The Economist, nonostante voci esterne di un possibile indebolimento della sua figura, acuitesi con l’avvento del Covid e una gestione oppressiva dell’informazione soggetto di censura, tra i cinesi comuni Xi è ampiamente ammirato come uomo forte che ha aumentato il peso della Cina a livello globale. Una distonia, quindi, tra la percezione che si ha della sua figura dall’esterno rispetto alla visione che si ha internamente, frutto di una forte pressione sui media e su un controllo del dissenso sulle proprie piattaforme che è in grado di esercitare da quando è salito al potere (vedi Editoriale 64). Una cosa che vanificherebbe ogni spiraglio di rottura interna al partito comunista e un suo possibile declassamento. Un’ambiguità quella della Cina, che si è palesata anche nel suo non schierarsi apertamente nel conflitto russo-ucraino (vedi Editoriale 79), e che dimostra come spesso la sua apparenza non sia reale manifestazione di ciò che il Paese è effettivamente.



La storia della punizione divina


Nell’alveo della propaganda antioccidentale messa in moto dal Cremlino, sulla TV nazionale russa diversi personaggi pubblici (in particolare i conduttori Evgeny Popov e Olga Skabeeva e il membro della Duma Alexei Zhuravlyov) hanno insinuato un collegamento tra i Paesi con casi rilevati di vaiolo delle scimmie e quelli che “forniscono armi al regime di Kiev”. Affermando inoltre che “quasi tutti coloro che si sono ammalati sono uomini di orientamento sessuale non tradizionale”. Allusioni, come evidenzia un articolo di Formiche, prive di nessi logici e scientifici, ma funzionali a una penetrante narrativa che distorce la realtà per evidenziare una supposta superiorità morale del regime di Putin. Affermazioni iperboliche dalla forte valenza emotiva, addirittura escatologica, che vorrebbe vedere nella diffusione del vaiolo delle scimmie una sorta di punizione divina. Si aggiunga l’infondatezza delle affermazioni: solo alcune delle nazioni in cui le infezioni si sono verificate hanno in realtà fornito armi all’Ucraina, né risulta esserci un legame tra l’infezione e l’orientamento sessuale, che può verificarsi in numerosi casi di contatto ravvicinato. Il Ministero della Difesa russo ha altresì richiesto all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di indagare sui “laboratori biologici americani presenti in Nigeria”. Teoria cospirativa, spiegata in un articolo di Open, sulla diffusione del virus, tra le numerose altre in circolazione, spesso mere riproposizioni di quelle già viste per l’epidemia Covid-19 (rispetto a cui l’attenzione è recentemente scemata per dare spazio a nuove tesi cospirazioniste sul conflitto in Ucraina, relative per lo più a presunti movimenti neonazisti legati alla Nato e all’esistenza di laboratori biologici statunitensi in Ucraina). Le nuove infondate affermazioni sulla propagazione del vaiolo delle scimmie rappresentano solo una delle numerose tecniche propagandistiche del Cremlino che rispondono alle finalità strategiche di interferire e destabilizzare i dibattiti pubblici russi e internazionali.



La complicità dei media


Su Linkiesta il docente universitario Mario Caligiuri risponde a Francesco Cundari, che sulla stessa testata si è soffermato sulla facilità con la quale la propaganda russa si diffonde in Italia. La narrazione del Cremlino, arma non convenzionale a cui i russi fanno ricorso da tempi non sospetti (vedi Editoriale 64) trova, sostiene il giornalista, il terreno ideale nella “cultura antipolitica, antiparlamentare, populista del novanta per cento del giornalismo e dell’intellettualità italiana”; il putinismo, conclude, non è che la faccia di un populismo radicato nei tempi all’indomani dell’Unità d’Italia. Pur ritenendo valida la ricostruzione storica di Cundari, nella sua risposta Caligiuri suggerisce che l’antipolitica prevalente non sia quella espressa dal sistema mediatico ma l’inquilina del Parlamento, che propone “personaggi improbabili in ruoli alta responsabilità”. E i media, anziché metterne a nudo le inefficienze, la rendono credibile, mantenendo in vita un sistema politico ormai finito e subordinato al potere economico. Un’ottica, quindi, che propone un diverso posizionamento del sistema mediatico in questo contesto così favorevole alla propaganda, in quanto considerato il complice principale di quello politico, inadeguato ma sostentato dalla manipolazione delle “deboli competenze alfabetiche della maggioranza degli italiani”. Il risultato, paradossale, è che la realtà, pur presentandosi agli occhi di tutti, non orienta le maggioranze. È centrale il ruolo di alcuni format televisivi come i talk show (vedi Editoriale 76) nella disinformazione, ma analizzare il mondo dell’informazione oggi in Italia significa anche prendere atto dell’inadeguatezza del sistema politico.



Presunzione di innocenza sui media


Il Sun è stato il primo a dare la notizia dell’arresto di un deputato conservatore con l'accusa di stupro, ma né i media né il Parlamento ha avuto la possibilità di identificarlo. Come riportato da Press Gazette, l'arresto è avvenuto dopo una serie di sentenze sulla privacy che hanno cambiato il modo in cui i giornali trattano le figure pubbliche sospettate di aver commesso un crimine. Infatti, a febbraio la Corte Suprema ha emesso una sentenza sulla privacy contro Bloomberg, decretando che una persona sotto indagine penale abbia il diritto alla privacy prima di essere accusata. La sentenza si basa sul fatto che l’Alta Corte, nel 2018, ha stabilito che la BBC avrebbe violato la privacy di Sir Cliff Richard in merito a un'accusa di violenza sessuale su minori. Sir Cliff non è mai stato arrestato o accusato. La BBC decise di non impugnare la sentenza, nonostante ritenesse che i giudici fossero in torto nell’affermare che i giornalisti normalmente non avrebbero il diritto di nominare qualcuno sotto inchiesta penale. La vicenda di Cliff Richard ha anche contribuito a una sentenza contro l’editore Mail Online Associated Newspapers nel gennaio 2021, in quanto non avrebbe dovuto svelare il nome di uomo arrestato con il sospetto di essere coinvolto nell'attacco terroristico del 2017 alla Manchester Arena, ma mai formalmente accusato. David Banks – esperto di diritto dei media – ha twittato che in questo modo i media non sveleranno il nome di un esponente parlamentare a meno che non sia accusato. Ha aggiunto che in alcune circostanze svelare l'identità di un imputato potrebbe portare anche all'identità di chi ha denunciato. Nonostante i media possano ancora sostenere l’esistenza di un interesse pubblico nel nominare un sospettato in quanto titolare di un incarico istituzionale, la sentenza Bloomberg farà sicuramente da deterrente.



Dietrofront su USA Today


È una vera e propria ammissione di colpa quella di un giornalista di Poynter, Rick Edmonds, che in un pezzo ha sottolineato una sua previsione passata rilevatosi sbagliata. Nell’ottobre del 2019, infatti, Edmonds aveva previsto che l'edizione cartacea di USA Today sarebbe stata chiusa entro due anni. Siamo arrivati al maggio 2022 e questo non è successo, nonostante i ricavi della stampa di USA Today rappresentino una quota sempre più ridotta del totale poiché Gannett persegue un ritmo più rapido di trasformazione digitale. Ma qual è il motivo commerciale per continuare a far vivere questa testata? Il giornalista l’ha chiesto direttamente a Maribel Perez Wadsworth, editore di USA Today e presidente del settore news di Gannett. La risposta è presto data: “La prima pagina stampata e la tradizionale organizzazione del giornale per sezioni sono una parte molto riconoscibile del nostro marchio", ha affermato. USA Today ha sempre annoverato tra i lettori principali i viaggiatori, che ne leggevano il contenuto principalmente negli alberghi; al giorno d'oggi, però, è molto più probabile che gli hotel lascino pile di giornali alla reception o nell'area della colazione. Alcuni di questi vengono presi, altri no, ma quei giornali stampati rimangono “un bel cartellone pubblicitario per USA Today”, afferma Wadsworth. Ed ecco che la testata cartacea continua a esistere, con un intento ben preciso: non essere dimenticata.



Fermi tutti, parla Pichai


Google svolge certamente un ruolo determinante, insieme ai social, nella condivisione e diffusione di informazioni e contenuti ma in questo eccezionale contesto sociale e politico lo stesso CEO di Google, Sundar Pichai, ha dichiarato a diverse testate europee, tra cui La Stampa, che adesso l’impegno di Google non è solo rendere disponibili informazioni ma limitare contemporaneamente la diffusione di propaganda estremista e notizie false. Certamente introdurre delle regole e quindi dei limiti nelle piattaforme online sembra contrastare la loro vocazione alla libertà di parola ma di certo in questo periodo più che mai - come ha dichiarato il CEO di Google - ci sono anche delle linee guida e impegni nei confronti delle comunità. Andare apparentemente contro questa vocazione alla libertà di espressione in questi contesti geopolitici così complessi significa piuttosto sostenere un’informazione giusta e quindi la verità stessa. Insieme a questo, lo scambio di dati e informazioni coinvolge anche il tema della pubblicità su cui però Google sta già lavorando affinché la privacy venga via via sempre più rispettata. Il pensiero di Google, infatti, è che l’intelligenza artificiale possa in realtà aiutare a migliorare la privacy e anticipare anche quelle regole e normative dei governi internazionali che mirano ad un controllo più ferreo della condivisione di dati e dunque alla tutela della privacy online. Forse non vivremo adesso una rivoluzione della natura delle piattaforme d’informazione online ma ci sono i presupposti per vedere cambiare qualche regola del gioco e quindi l’esperienza stessa di fruizione online. La vera ricchezza non è rappresentata dalla moneta ma dai nostri dati e da tutte quelle informazioni che possono aiutare le Big Tech ad avere una visione del mondo sempre più approfondita e completa a vantaggio del proprio business e forse anche della propria vocazione.

bottom of page