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Editoriale 141

La comunicazione sui media
24 - 30 luglio

1 agosto 2023

L’era della frammentazione dei media. L’algoritmo di Facebook non genera polarizzazione. Una macchina della censura. La bellezza della Cina in rete. Sopprimere fino all’ultima voce. Quanto vale un marchio?

La Redazione


L’era della frammentazione dei media


Le elezioni americane del 2024 hanno dato vita all’era della frammentazione dei media. Il declino dei canali tradizionali (inclusi Facebook e Twitter) ha fatto migrare il pubblico verso piattaforme di piccola e media dimensione, come ad esempio il Daily Wire o l’anteprima di quella che sarà la nuova media company di Tucker Carlson. E non a caso, scrive Semafor, i candidati trascorrono buona parte del loro tempo a conversare con i nuovi personaggi del panorama mediatico americano, da Shawn Ryan a Clay Travis, raggiungendo centinaia di migliaia di persone. Anche se, alcune stelle nascenti tengono a debita distanza la politica: diversi candidati repubblicani, incluso Trump, hanno cercato, senza successo, di comparire nel podcast di Joe Rogan. Forse è presto per capire l’impatto di questo fenomeno sulla democrazia. Certo è, invece, che la politica nazionale americana risulta un indicatore sempre più rilevante per il futuro dei media, e le campagne che risulteranno vincenti saranno proprio quelle che prima delle altre comprenderanno tali cambiamenti. Lo abbiamo iniziato a intravedere nella nuova strategia digitale di Biden che punterebbe a reclutare un esercito di influencer e creator indipendenti per raggiungere gli elettori più giovani, fondamentali nella sua elezione. Proprio quest’ultimi (età 18-29) nel 2020 hanno preferito Biden a Trump con un margine di 26 punti, e a metà mandato (2022) i Democratici ai Repubblicani con uno di 28 punti.



L’algoritmo di Facebook non genera polarizzazione


Gli algoritmi delle piattaforme social sono sempre stati considerati la principale causa della forte polarizzazione che caratterizza la nostra società. Tuttavia, secondo quanto emerso da recenti studi condotti da ricercatori universitari e analisti di Meta, modificare l’algoritmo di Facebook non risolverebbe il problema. Questo non significa che tale algoritmo sia irrilevante, ma sussistono dubbi sulla capacità di Meta di influenzare le convinzioni politiche delle persone: durante le analisi, i ricercatori hanno notato che eventuali modifiche al feed avrebbero un impatto minimo in tal senso. L’obiettivo degli studi consisteva nell’analizzare come i social media influenzano la comprensione e le opinioni delle persone su notizie, governo e democrazia. Nell'ambito del progetto, i ricercatori hanno modificato i feed di migliaia di persone che hanno utilizzato Facebook e Instagram durante il periodo precedente alle elezioni del 2020, per vedere se ciò potesse cambiare le loro convinzioni politiche, esponendole a informazioni diverse da quelle che avrebbero potuto normalmente ricevere. Ma l’impatto di questa modifica, come riportato dal Washington Post, è risultato minimo. Gli studi tuttavia proseguiranno con un focus sui dati raccolti dopo l’assalto al Congresso ma, secondo uno dei ricercatori principali, sarebbe opportuno che vengano condotti con una maggiore dipendenza da Meta. “Meta supporta l'indipendenza dei ricercatori, motivo per cui gli accademici esterni avevano la gestione del progetto, l'analisi e la scrittura della ricerca. Abbiamo adottato una serie di misure per garantire che questo processo fosse indipendente, etico e ben fatto”, ha affermato Meta in una nota.



Una macchina della censura


30, il numero di volte in cui è stata intensificata la censura online in Russia. Il dato emerge da una ricerca di Citizen Lab, dell'Università di Toronto, che si è posta l’obiettivo di quantificare l’entità della censura online in Russia dall’inizio della guerra in Ucraina. I ricercatori hanno analizzato oltre 300 ingiunzioni del governo russo contro Vkontakte, una delle maggiori piattaforme social del Paese, volte a rimuovere account e contenuti contrari al governo. Prima della guerra, la media era una ingiunzione ogni 50 giorni, secondo quanto riportato dal New York Times. “Questi risultati evidenziano l'estrema sensibilità politica della guerra in Ucraina e la necessità della Russia di controllare meticolosamente l'accesso dei russi alle informazioni riguardanti l'invasione”, ha affermato uno degli autori del report. Come se non bastasse, sembra che la propaganda russa si stia diffondendo anche nei videogiochi di tutto il mondo. Su Minecraft, popolare gioco di proprietà di Microsoft, alcuni utenti russi hanno rievocato la battaglia di Soledar, una città dell'Ucraina conquistata dalle forze russe a gennaio, pubblicando il relativo video su VKontakte. Passando anche per le piattaforme in cui si dibatte di videogiochi, da Discord a Steam, la narrazione russa intende un raggiungere un target giovane per persuaderlo sulle motivazioni della guerra.



La bellezza della Cina in rete


Dallo scorso ottobre ad oggi gli account dei media statali cinesi, come il Global Times e People’s Daily, hanno pubblicato su TikTok oltre un migliaio di post sull’efficacia delle politiche cinesi sul Covid-19, sulla bellezza dello Xinjinag e sulle critiche al “muro” eretto dagli Stati Uniti e dall’Unione europea contro la Via della Seta. È quanto emerge da una ricerca condotta da Forbes. Inoltre, il target di riferimento di tale campagna sembra essere stata proprio l’Europa: tra Austria, Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca e Ungheria, milioni di utenti europei sono stati raggiunti dalla propaganda cinese. Si tratta dell’ennesimo episodio sospetto sul legame tra Pechino e TikTok, anche se non è affatto scontato avere la certezza che dietro tale campagna si celi il governo cinese. Pur non rispondendo alle domande specifiche sui post in questione, il portavoce di ByteDance, Jamie Favazza, ha precisato che le istituzioni possono fare pubblicità sulla piattaforma in base ad accordi commerciali con questa. I risultati della ricerca di Forbes di certo complicheranno ulteriormente i rapporti con Washington, dove si discute di un divieto totale dell’app cinese, e Bruxelles, che con il Digital Service Act ha imposto nuove e stringenti regole alle piattaforme social.



Sopprimere fino all’ultima voce


Gli studenti indiani di giornalismo oggi pagano milioni di rupie per formarsi da agenti dello Stato. Queste le parole con cui Ravish Kumar nel novembre scorso ha presentato le dimissioni da senior executive editor di New Delhi Television Ltd (NDTV), a seguito dell’acquisizione dell’emittente da parte di Gautam Adani, miliardario vicino al primo ministro Narendra Modi. Ed è proprio dall’insediamento di quest’ultimo, nel 2014, che, scrive NiemanLab, il panorama mediatico indiano è stato stravolto: violenze della polizia, indagini fiscali, minacce ai giornalisti, campagne intimidatorie e sospensione degli introiti della pubblicità governativa sono le armi con cui Modi ha soppresso ogni voce non a lui favorevole, anche al di fuori del Paese. La sede indiana della BBC, infatti, è finita sotto indagine dopo la messa in onda, al di fuori dei confini nazionali, di un documentario non lusinghiero nei confronti del premier (vedi Editoriale 126). Una battaglia portata avanti anche attraverso i social media, utilizzati dal governo per screditare i giornalisti e diffondere disinformazione, con picchi senza precedenti durante la pandemia. Prima dell’acquisizione NDTV era una delle poche fonti d’informazioni rimaste che cercavano di mantenere un approccio obiettivo alle notizie, e il cambio di proprietà è avvenuto a poca distanza dalle cruciali elezioni del 2024. I giornalisti dissidenti cercano di riorganizzarsi aprendo canali indipendenti, ma nel Paese l’informazione libera ha vita dura: ogni anno tre o quattro professionisti vengono assassinati per il loro lavoro, e l’India occupa il 161mo posto su 180 nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo redatta da Reporter Senza Frontiere.



Quanto vale un marchio?


I marchi che ispirano la fedeltà dei clienti hanno un valore reale per l'azienda e, come riporta Paul Krugman sul New York Times, non dovrebbero essere cambiati casualmente. Elon Musk ha da poco avviato il rebranding di Twitter cambiando il suo nome in “X”. Considerando che Twitter funzionava, perché Musk ha deciso di cambiare il nome della piattaforma e di scegliere un logo che ha sollevato diverse criticità? C’è chi ha trovato nella X una connotazione pornografica e chi, come l’autore dell’articolo, ha visto una connotazione politica autoritaria come la Z utilizzata dai russi nella guerra contro l’Ucraina. La scelta di Musk mostra una mancanza di logica aziendale a favore della mera volontà personale e del piacere verso la lettera X, nella convinzione che la sua genialità possa facilmente rendere l'azienda più redditizia senza bisogno di pensare ad una strategia a lungo termine. Ma di fatto, come riporta Politico, Musk sarebbe stato criticato qualunque mossa avesse fatto. E questo per via della community di Twitter, tendenzialmente restia al cambiamento. Ne sono un esempio i giornalisti, che utilizzano la piattaforma come amplificatore del proprio ego e della propria affermazione. Twitter è diventato “the press corps’ universal measure of status”, e non importa l’uso che Musk o chiunque altro ne faccia. Forse Musk sta distruggendo Twitter – o forse no – ma di certo conosce molto bene gli utenti che lo popolano e che, nonostante il rebranding, continuano ad alimentarlo.

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