Editoriale 90
La comunicazione sui media
27 - 03 luglio
5 luglio 2022
Propaganda ed educazione siberiana. Aborto e libertà di parlarne. Aborto, Big Tech e big data. Combattere le fake news su TikTok. Negli USA ogni settimana chiudono due giornali. Hong Kong sempre più cinese. Anche Modi censura. L’antiamericanismo all’italiana. Meno censura, più fact checking.
La Redazione
Propaganda ed educazione siberiana
Come riporta il Data Room di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, anche in Italia la propaganda russa si manifesta attraverso siti aggregatori e agenzie come News-Front.info, che da febbraio 2022 a fine maggio, in concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina, pubblica i contenuti in 11 lingue, raggiungendo 26,5 milioni di visualizzazioni nel mondo. Il fondatore dell’agenzia è Konstantin Knyrik, 33 anni, che è anche il capo del partito ultranazionalista filo-Cremlino Rodina, che in russo significa “Patria”, e ha una divisione in Crimea. È un ulteriore, lampante esempio della pervasività della macchina comunicativa russa. E mentre i media dei Paesi ospiti hanno modo di misurare e dimostrare la propria credibilità sulla base dell’amplificazione, del rigetto o del fact checking delle notizie (vedi Editoriale 84), in Russia il Cremlino sta impartendo ai propri mezzi di informazione una vera “educazione siberiana” attraverso messaggi a senso unico. Ma questo enorme sforzo di propaganda, sia all’estero sia all’interno, potrebbe non essere ripagato, a cominciare proprio dalla popolazione russa che, grazie anche alla controinformazione ucraina (vedi Editoriale 79), vive costanti dubbi sull’operato del governo di Putin e sulla credibilità delle autorità militari.
Aborto e libertà di parlarne
Tra gli effetti della decisione della Corte Suprema americana di limitare il diritto all'aborto, c’è quello che relativo alla limitazione per i media di trattare l’argomento, alla luce del Primo Emendamento. Secondo il New York Times, senza un diritto federale all’aborto, il Primo Emendamento potrebbe permettere di censurare il discorso riferito a una procedura medica che diventerà illegale in gran parte del Paese. Secondo alcuni studiosi, poiché l'aborto rimarrà legale in molti stati, offrire informazioni su come le donne possono ottenerlo non dovrebbe diventare un crimine. Il nuovo panorama legale però è ancora inesplorato e non lascia molte certezze in merito. “Si ha il diritto, apparentemente, di parlare di aborto”, ha affermato Will Creeley, direttore legale della Fondazione per i diritti individuali e l'espressione, ma la questione diventa adesso se quel discorso potrà essere regolamentato. E in che modo le donne potranno essere informate delle loro opzioni.
Aborto, Big Tech e big data
Dopo l’abolizione della sentenza Roe vs Wade, ci si chiede se le Big Tech adesso supporteranno la polizia, attraverso la condivisione dei dati, nel perseguire reati legati all’aborto. Come riportato dal Washington Post, le aziende non hanno ancora dato una risposta, ma la questione è controversa e molti lavoratori si sono già mobilitati. Alcuni dipendenti di Google, in un forum interno, hanno chiesto alla direzione di riconsiderare i suoi processi di condivisione e raccolta dei dati. Ad Amazon i lavoratori hanno chiesto, con una petizione, che l’azienda denunciasse il ribaltamento della sentenza, attraverso una serie di azioni e proteste per sponsorizzare il diritto all’aborto. I leader di Facebook hanno discusso le strategie legali in merito alla questione, tuttavia l'azienda non ha reso pubblici i suoi piani. Nessuna delle Big Tech ha dato una risposta chiara. La costernazione interna dei dipendenti coincide con un momento storico particolare, in cui le Big Tech devono anche affrontare numerose cause legali da parte di autorità federali e statali, oltre a una nuova legislazione antitrust volta a diminuire il loro potere. Per anni, i difensori della privacy hanno sollevato preoccupazioni riguardo a questa enorme raccolta di dati. Ora quel tipo di informazioni potrebbe essere utilizzato per trovare, arrestare e perseguire coloro che ottengono o favoriscono l'aborto. Ci sono chiare misure che le aziende potrebbero intraprendere: prima di tutto, limitare i dati raccolti sulle persone, soprattutto quando si tratta di aborto e assistenza sanitaria; cambiare il modo in cui gestiscono la propaganda e la disinformazione relative all'aborto sulle loro piattaforme, così come avevano fatto per il Covid-19; infine, secondo alcuni, dovrebbero semplicemente ignorare le richieste di dati relativi all'aborto. Tuttavia, tutti questi provvedimenti stridono con il core business delle Big Tech e ciò significa che la raccolta, la creazione e lo sfruttamento dei dati non può essere considerata un’opzione. È molto difficile dunque che le aziende tecnologiche adottino misure etiche significative quando queste potrebbero minare il loro modello di business.
Combattere le fake news su TikTok
Una sfida lanciata agli influencers che postano contenuti privi di fondamento scientifico condotta sullo stesso campo di battaglia e, letteralmente, con le stesse armi. Sul New York Times Rina Raphael approfondisce il fenomeno rappresentato dal crescente numero di scienziati, medici, professionisti della sanità e accademici impegnati in attività di debunking su TikTok. Diversi esponenti di queste professionalità, infatti, dedicano una parte – spesso consistente – del proprio tempo a smentire le fake news che circolano sul social network cinese, ricorrendo a tecniche come lo stitching (l’inclusione di un video in uno nuovo in cui si smentisce quanto quello già pubblicato affermava, in modo da creare un botta e risposta). Il confronto è, in termini numerici, nettamente impari – secondo alcune stime per un solo creatore di contenuti verificati con un buon seguito ne esistono circa 50-60 che diffondono notizie senza fondamento – e su questa piattaforma le bufale sono longeve: la disinformazione viaggia anche attraverso i messaggi audio che, anche se i video a essi associati vengono cancellati, sono stati utilizzati da altri utenti per altri contenuti e, quindi, rimangono in circolazione, e, come ha rilevato uno studio dell’Institute for Strategic Dialogue di Londra, anche la segnalazione di contenuti non verificati sui vaccini contro il Covid-19 non è frequente (il 58% di 6.000 video relativi all’argomento analizzati non riportava il banner con informazioni aggiuntive); e il volume di post fuorvianti e non verificati a livello generale è davvero ingente. Davide lotta contro Golia e lo scontro non passa inosservato: gli studiosi di disinformazione, infatti, oltre a fornire suggerimenti a TikTok su come arginare il fenomeno, invitano le istituzioni a investire maggiormente in influencer di questo tipo. Una prospettiva da tenere in considerazione, in presenza di una disinformazione che può diventare un’arma di destabilizzazione politica (vedi Editoriale 19).
Negli USA ogni settimana chiudono due giornali
Negli USA, secondo quanto riportato anche dal Washington Post, ogni settimana chiudono due giornali. Ciò avviene per lo più nelle zone più povere e meno collegate degli Stati Uniti, dove ora è maggiormente difficile trovare notizie credibili sulla comunità locale. Questo comporta dei “deserti di notizie” dove si annidano comunità prive di fonti che forniscano un'informazione locale significativa e affidabile su questioni come la salute, la politica e l'ambiente. È un vuoto che lascia i residenti nell'ignoranza di ciò che accade nel loro mondo, incapaci di partecipare pienamente come cittadini informati. I giornali locali non sono certo le uniche fonti di notizie in grado di informare, ma sono quelli che tradizionalmente hanno ricoperto questo ruolo. E stanno scomparendo; difatti, secondo una ricerca della Medill School della Northwestern University, un terzo dei giornali americani che esistevano circa vent'anni fa non saranno più in attività entro il 2025. Di pari passo, in tutta la nazione sono sorti molti siti di notizie solo digitali, difficilmente in grado di informare come gli antenati cartacei. “Questa tendenza si inserisce e aggrava l'intero divario che vediamo in America”, afferma a tal proposito l'autore principale del rapporto. Assunto ciò, quindi, quali saranno le implicazioni per la democrazia americana?
Hong Kong sempre più cinese
Gli “Hong Kongers” sono sempre stati diffidenti dei piani che la Cina ha nei confronti dell’ex-colonia britannica. Nonostante ciò, come riportato dall’Economist, dal 1980 la Cina è riuscita a inviare circa un milione di persone a Hong Kong attraverso un particolare permesso di sola andata, puntando anche a sostituire gli Hong Kongers che lottano per la democrazia con “continentali” fedeli al partito. Oltre a questa tecnica di spinte migratorie, la Cina ha agito anche attraverso i media, lasciando poco spazio al dissenso pubblico e occupandosi di fornire una narrazione a senso unico. Parte di questo processo sono stati anche il sistema educativo di Hong Kong e la magistratura. Le politiche oppressive, così, stanno spingendo centinaia di migliaia di locali fuori città, nonostante il centro finanziario asiatico continui ad essere la città più libera della Cina. In questo momento, i sondaggi dicono che le persone che si identificano come “cinesi” stanno aumentando rapidamente, mentre la percentuale di chi si identifica come “Hong Kongers” è scesa al 39%. All’interno di questi dati c’è anche un ampio divario generazionale: infatti, solo il 2% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si identifica come “cinese”, ma con l’aumentare delle repressioni, Hong Kong diventerà sempre più cinese.
Anche Modi censura
Il giornalista indiano Mohammed Zubair, cofondatore del sito di fact-checking Alt News e critico nei confronti del primo ministro Narendra Modi, è stato arrestato in seguito alla denuncia di un utente anonimo di Twitter. La vicenda, raccontata in un articolo del New York Times, ha riacceso le preoccupazioni sul deterioramento delle libertà giornalistiche nella più grande democrazia del mondo (vedi Editoriale 89). Zubair è stato trattenuto con l’accusa di aver ferito i sentimenti religiosi e di aver promosso l’inimicizia tra gruppi di credenti, a causa di un tweet del 2018 in cui sembra avesse mancato di rispetto ad una divinità indù. La detenzione del giornalista musulmano è stata condannata da giornalisti e attivisti, che la considerano parte di un ampio giro di censura contro i critici del Primo Ministro Narendra Modi e della visione del mondo nazionalista indù del suo partito, criticato apertamente da Zubair su Twitter per condannare i militanti indù e i monaci che invitano ad uccidere i musulmani. Modi ha però preso parte al G7 in Germania, impegnandosi a favore di mezzi di informazione liberi e indipendenti. Il rilascio di Zubair, quindi, è necessario per rafforzare gli impegni presi e dunque la sua stessa reputazione. La repressione del governo nei confronti della libertà di stampa non si ferma al giornalista musulmano. La polizia indiana ha arrestato anche un’importante attivista per i diritti umani, Teesta Setalvad, che ha portato avanti una lotta contro i funzionari governativi per il loro ruolo nei disordini settari del 2002, in cui più di 1000 persone sono state uccise nello stato occidentale del Gujarat. Nel 2020, almeno 67 giornalisti sono stati arrestati dalle autorità in India, consacrando, quella indiana, come la repressione della libertà di stampa più pericolosa degli ultimi decenni.
L’antiamericanismo all’italiana
L’antiamericanismo italiano nacque negli anni Trenta, sosteneva Umberto Eco, sull’onda dell’avversione fascista agli Stati Uniti. “Americanata” divenne sinonimo di cafonata di pessimo gusto, pur derivando dal titolo di una rubrica della Domenica del Corriere che riportava entusiasticamente le good news da oltre mare. Una storia in cui si alternano forti passioni di fascino e diffidenza, governate dal potente soft power americano. Diffidenza oggi tornata in auge, secondo Il Foglio, nella “terza era” della cancel culture, costantemente citata nei media nostrani, tra statue abbattute, #MeToo e vecchi Tweet rispolverati per stroncare illustri carriere. Gli intellettuali italiani si ergono in difesa delle vittime del politicamente corretto, nonostante in Italia, afferma Il Foglio, questa cultura sia tutt’altro che affermata: il potere del #MeToo americano muore nella penisola, dove le carriere dei registi accusati decollano invece di fermarsi, scagionati in tempi record per i canoni della giustizia italiana. Aquile e fasci di combattimento adornano l’intera capitale, su tombini, ponti, statue: nulla è stato abbattuto, la cultura non è stata cancellata. E comunque, nell’antiamericanismo tutto all’italiana, le vacanze in California restano un must.
Meno censura, più fact checking
Secondo il commissario Agcom Antonello Giacomelli, la disinformazione russa non è un tema da sottovalutare ma nemmeno da contrastare a suon di censure. In un’intervista a Formiche, Giacomelli ritiene “fondato l’allarme che è stato lanciato, non da ora, contro il rischio di strategie messe in campo da autocrazie illiberali per alterare il libero e corretto confronto nei Paesi democratici”. Per affrontare questa criticità, l’auspicio del commissario è che se ne occupino le strutture di sicurezza nazionali attuando un’azione di difesa. In merito al bollettino sulla disinformazione contenente la controversa lista di filo-putiniani in Italia, Giacomelli smentisce quelle voci che sostengono che Agcom, authority indipendente e autonoma, avesse partecipato a un tavolo interministeriale convocato e coordinato dal Dipartimento della Sicurezza. La via principale per fare fact checking, secondo il commissario, non è limitare la libertà d’espressione o la libertà di stampa ma valorizzare e proteggere l’attività professionale e la coscienza del giornalista, e, anche a tal riguardo, Agcom aveva già lanciato un allarme con il Rapporto sul giornalismo in cui emergeva la necessità di una riforma del settore che assicurasse condizioni contrattuali adeguate ad ogni giornalista.